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La ferita.

C’è la mia ferita li, non la toccare, brucia.

C’è la crosta che si è fatta su dopo averla messa sotto l’acqua fredda a scorrere via le parole.

C’è la voglia di vedere se poi, dopo tutto questo camminare, rimarrà una linea bianco latte a segnare il mio coraggio.

Non la guardare, ti dico. Me ne vergogno. Sono qui solo per la promessa che ho fatto, di non farmi ammazzare del tutto.

Entro da questo varco a forma di ferita, solo per incontrarti. Per guardare sotto l’acqua stagnante e cercarne la vita nel fango. Che io me la ricordo questa vita. La trovavo alla Pisa, con le amiche della chiesa, quando c’era il pastore americano che raccontava le speranze e tutti lì ad ascoltare. È che poi, questa speranza, mi sono dimenticata di portarla con me. Mi si è sciolta tra le mani, ore di preghiere andate in fumo.

Perché io a Dio gli ho sempre parlato. Gliele ho raccontate tutte, ma proprio tutte. Non ho coperto nulla. Prega, mi dicevano. E io pregavo, pregavo. Che per me la preghiera è come una ninna nanna per il cuore. Una cantilena personale che un po’ guarisce la testa, mica solo il cuore. Parlavo con lui, dicevo, e gli facevo vedere le mie ferite, quelle belle rosse, ancora vive prima delle croste. Lui lo sapeva che aspettavo un segno. Un cenno. Un piccolo movimento della testa, che mi desse una benedizione insomma. Perché, come fai a scomparire se non sei benedetta da lassù? Una magia quasi, come in quelle storie di principi e principesse, di sogni e castelli. Storie di principesse e principi. Storie di principi, credo. Alla fine mi sono scordata di pregare Dio, il principe ha preso tutto il posto.

Metto il dito sulla crosta, scivola lento sulle ruvide forme. Socchiudo gli occhi e la rotondità finale la fa sembrare una piccola bestiolina assopita in equilibrio. Si muove quasi. Ha una sua essenza. Pare che mi parli. Anzi no, è una cantilena. Prega. Questa crosta di ferita, prega. Mi prega di portala via di qui. Di indicargli una strada possibile. Un modo vero di camminare lontano da questo luogo. Perché dal dolore, quello profondo, è quasi impossibile andare via. Ma da qui si. Da qui si può scivolare via.

Ho incontrato Lia in un giorno di aprile, che neanche a scriverci un libro è il mese perfetto per rinascere. Lia aveva una crosta enorme, sotto una ferita immensa che aspettava di asciugare.

Anche io ne avevo una.

Rimane il bianco latte sottile a farci sentire vive.

Siamo guarite insieme.

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